Intervista a Marco Giannoni
di Rossella Taliano Grasso
(2010)
Cosa è per te un corpo?
Me lo chiedo ancora, nonostante sia uno dei miei terreni d’indagine degli ultimi anni. Per quanto tenti di scendere sempre più in profondità, o di percorrerlo nella sua vastità, c’è sempre qualcosa che mi resta costantemente ignoto, come un continente del quale si possano scoprire solo alcune regioni, senza averne esperienza nella sua totalità. Quello di cui mi sono convinto è che tutto risieda in esso, comprese quelle facoltà che normalmente chiamiamo fantasia o ispirazione, o quelle esperienza che sembrano trascenderci e che attribuiamo alla cosiddetta anima. C’è una folgorante affermazione di Nietzsche, che condivido pienamente «Corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro; e anima non è altro che una parola per indicare qualcosa del corpo. Il corpo è una grande ragione, una pluralità con un solo senso; una guerra e una pace, un gregge e un pastore».
Cosa è per te il suono?
Per me il suono è ciò che è …ciò che è fisicamente intendo: un fenomeno cognitivo prodotto dal movimento di un corpo e trasmesso alle nostre orecchie tramite un conduttore. Può sembrare banale e invece il mio lavoro parte sempre da questo approccio fenomenologico, quasi meccanicistico, dall’evidenza che qualsiasi cosa io scriva dovrà essere per così dire verificata dall’ascolto. Questo apre essenzialmente due scenari diversi: la possibilità di creare dei brani che si basino sulla fisiologia dell’ascolto e che sfruttino i diversi modi percettivi dell’ascoltatore a fini espressivi, e la preoccupazione della resa acustica dei propri brani. In alcuni ambiti musicali specifici - penso soprattutto alla musica concreta ed elettronica, ma non solo - la riproduzione del suono è talmente importante ai fini compositivi che una sua variazione, una piccola mutilazione, una distorsione può compromettere la natura stessa dell’opera. Immaginiamo di riprodurre la sinfonia n°5 di Beethoven equalizzandola in maniera tale che la parte di spettro acustico più bassa, diciamo violoncelli e contrabbassi, non sia quasi avvertibile: siamo certi che ciò che ascolteremo possa ancora essere definito come la 5ª di Beethoven? Purtroppo ancora oggi il problema della fedeltà nella riproduzione del suono crea notevolissimi problemi a chi, come me, lavora spesso alle soglie dello spettro percettivo o con particolari modalità di emissione e sovrapposizione del suono. Le migliori intenzioni in fase creativa devono poi scontrarsi con la realtà di spazi destinati all’ascolto (teatri, auditorium…) con impianti audio spesso di scarsa qualità.
Cosa è per te il tempo?
Il tempo è un elemento parassitario della musica, una sostanza densa che pervade ogni anfratto della scrittura musicale, in maniera tanto vischiosa da renderla inscindibile da se stesso.
Permea ogni sequenza di suoni e non solo perché la musica rientra, appunto, nelle arti-del-tempo; esso ha numerosissime e gravi implicazioni con l’opera musicale a molteplici livelli: innanzitutto il tempo precede l’esistenza stessa dell’evento sonoro e, indubitabilmente, lo segue; è in questo continuum che la musica accade come puro atto, come puro evento, per sparire poi senza lasciare traccia. Saper cogliere il posizionamento dei suoni nella stringa del tempo, ascoltarne uno ed essere disposti ad abbandonarlo subito dopo in favore del successivo, mantenendone però il ricordo e stabilendo tra essi un legame comunicativo, quasi linguistico: questo è l’ascolto, serie di atti costruiti sul tempo. Non dimentichiamo inoltre che la musica sembra poggiarsi sulla sequenza irreversibile del tempo storico senza esserne però troppo vincolata, tanto che la storia della musica appare procedere in maniera non lineare e le varie fasi storiche solo approssimativamente possono avere il profilo di un’evoluzione costante ed esponenziale verso i linguaggi del contemporaneo, visti quindi non come risultanza di acquisizioni stratificate nel tempo ma come peculiarità di un circoscritto momento sociale ancor più e ancor prima che storico. È forse questa la più grande rivincita della musica sul tempo. In ultimo, al tempo è demandato il ricordo, la memoria appunto di quell’atto immateriale, etereo, impalpabile ed inesorabile che è la musica.
Ritmo e melodia; cosa sono e come le ritroviamo nella vita?
Parlare del ritmo dopo aver parlato del tempo è inevitabile… Il ritmo è l’ordinamento dei suoni nel tempo, tralasciando la più complessa questione della disposizione degli accenti ritmici. Riducendo il fenomeno ai minimi termini possiamo dire che due suoni non simultanei stabiliscono già una porzione di tempo, una distanza, una misura che, ripetuta, dà luogo al ritmo. Anche sequenze di suoni più ampie, dei veri e propri oggetti sonori complessi, se ripetute uguali a se stesse danno luogo al ritmo, come nello sferragliare d’un treno. La mente ha bisogno del ritmo, non stupisce quindi che praticamente tutte le culture del mondo abbiano sviluppato, se non un vero e proprio sistema musicale, almeno un sistema ritmico seppur elementare. È curioso constatare come la mente abbia poi bisogno, qualora si trovi di fronte ad una sequenza di suoni sempre uguali, di attribuire degli accenti differenti (uno forte ed uno debole) a tali suoni; è quello che accade con gli orologi meccanici, il cui ticchettio formato da suoni identici viene però generalmente definito come composto da un tic ed un tac. Esistono inoltre ritmi più “naturali”, più adatti alla nostra biologia: il ritmo binario ad esempio, che ci accompagna da sempre dettato dal battito cardiaco o dall’incedere deciso dei nostri passi; ma evolvendoci abbiamo fatto l’abitudine anche a ritmi meno fisiologici, come il ritmo ternario. È interessante indagare come il ritmo sia strettamente legato alla nostra percezione del tempo; già qualche anno fa ho composto lavori come Il attend e Acque partendo dalla constatazione che privare un pezzo musicale di un ritmo pulsante ben ordinato e sufficientemente avvertibile metteva in crisi la capacità di stima della durata temporale nell’ascoltatore. Avevo notato tale effetto durante la lavorazione del ciclo Materie . Proponendone l’ascolto a diverse persone era emerso che generalmente la mancanza di pulsazioni ritmiche distinguibili ed ordinate portava il fruitore ad una stima per eccesso del tempo trascorso, rendendolo incapace di stabilire con una buona approssimazione la durata di ciò che aveva appena ascoltato. Concorreva forse a questa incapacità anche la mancanza di melodia, ovvero di quella struttura musicale formata da una serie di suoni eseguiti in successione. La presenza della melodia avrebbe probabilmente contribuito a superare la difficoltà data dalla mancanza di pulsazioni ritmiche poiché la melodia contiene già il ritmo, anzi potremmo dire che essa stessa manifesta una funzione che definirei cronopoietica; la melodia, analogamente alla parola, ha la capacità di autogenerare il ritmo, dato che le durate dei singoli suoni che la formano stabiliscono già delle scansioni ritmico-temporali.
Puoi darci un’immagine interessante di interazione corpo-spazio-tempo-suono?
Non so se può essere interessante ma inevitabilmente il primo comun denominatore di questi quattro termini a saltarmi alla mente è l’atto musicale, inteso come atto esecutivo dal quale l’evento sonoro scaturisce. È piuttosto evidente, si tratta in realtà di due coppie di termini correlati: il corpo e lo spazio, il tempo e il suono. Il corpo di un pianista è necessario all’atto musicale che definiamo concerto ma, perché tale atto accada, il suo corpo deve mettersi in relazione con lo spazio, ad esempio facendo percorrere alla punta del proprio dito lo spazio che la separa dal tasto del pianoforte. Reiterando tale azione e variandola opportunamente in base alle proprie esigenze espressive, egli innescherà e ordinerà una serie di fenomeni sonori distribuiti nel tempo, ciò che normalmente chiamiamo musica.
Esiste un concetto molto interessante sviluppato dalla nuova robotica che è quello di “incorporare”, un po’ quello che accade a un corpo che guida un’auto o a un surfista con la tavola che non si stacca dai piedi ecc… o a un portatore di protesi; (non più un oggetto esterno ma un’estensione del corpo). Penso che sia perfettamente ciò che accade nella musica, cosa accade ad un musicista con il suo strumento? cosa accade al suo corpo?
Credo anch’io che l’esempio sia calzante: il musicista è parte integrante del proprio strumento (o viceversa). Anche se nell’immaginario collettivo hanno un che di apollineo, una nobilitazione che viene loro conferita dall’uso “artistico” che se ne fa, gli strumenti musicali sono pur sempre degli arnesi, degli utensili e, in quanto tali, per loro stessa natura nascono come prosecuzioni del corpo. Più interessante è capire cosa accade al corpo del musicista durante una performance strumentale e credo che questo sia realmente un territorio quasi inesplorato. Quindi me lo chiedo anch’io: cosa accade al corpo dell’esecutore quando viene percorso dalle vibrazioni del strumento che gli è a contatto? Ma vado oltre ed aggiungo: quali benefici in termini medici ne può trarre? Quale l’effetto delle onde sonore sui punti energetici che sono alla base, ad esempio, della medicina tradizionale cinese o di quella indiana? E soprattutto cosa accade veramente al cervello? Anche se la neuropsichiatria si è occupata e si occupa ancora dei temi legati alla percezione musicale (penso alla magnifica opera di ricerca e divulgazione di Oliver Sachs), credo che prima o poi la medicina in generale finirà per incuriosirsi di tali temi e ci fornirà risposte interessanti e stimolanti. Nell’attesa io ho avuto invece la curiosità di posizionare dei particolari microfoni sul corpo di una pianista per ascoltare la musica che stava suonando così come la ascolta il suo corpo, “filtrando” cioè il brano attraverso le strutture anatomiche dell’esecutore.
Precedentemente abbiamo parlato di tatto, incide il tatto con la modalità del suono?
Assolutamente sì, anche se con notevoli ed ovvie differenze da strumento a strumento. Ogni musicista sa quanto il tatto incida sulla resa del suono e quanto lo stesso strumento suoni diversamente se agito da mani diverse. Il tatto è il senso che, prima ancora dell’udito, interfaccia il musicista con lo strumento musicale. Per quanto concerne invece l’ascoltatore, nell’atto di fruizione il fenomeno acustico resta ovviamente il veicolo privilegiato della musica ma i non udenti, ad esempio, riescono a percepire molti dei parametri di un brano musicale dalle vibrazioni di un palloncino gonfio d’aria tenuto tra le mani.
Diego Carpitella si chiedeva se fosse nata prima la danza o la musica, visto che la musica nasce dal battere le mani e percuotere la terra con i piedi; riconosci questa affinità e legame fra musica e danza, e questa vicinanza della musica al corpo?
Riconosco senz’altro una vicinanza tra la danza e la musica, un terreno comune fertile e vasto, anche se non parlerei di un rapporto di filiazione. La querelle storica, ormai quasi mitica, sull’origine della musica e sul primato che essa si contende con la danza è destinata a rimanere insoluta, assieme alle modalità in cui si scoprì il fuoco o si inventò la ruota. Volendo comunque immaginare cosa accadde nella notte dei tempi a un gruppo qualsiasi di ominidi riuniti, va segnalato che probabilmente esiste una zona di ibridazione tra le due discipline: battere le mani o i piedi è già la nascita della musica, ma di una musica prodotta dal corpo in movimento, quindi da un atto coreutico, seppur elementare. Ecco allora che la probabilità di una genesi comune tra le due arti diventa del tutto plausibile e, a mio modo di vedere, piuttosto convincente.
Se dovessi tracciare i punti fondamentali che hanno trasformato la musica o il concetto di suono cosa indicheresti?
La musica ha vissuto numerose rivoluzioni, alcune reali altre fittizie, alcune durature altre incredibilmente brevi. Il passaggio dalla monodia alla polifonia, l’avvento del temperamento equabile, la nascita della tonalità basata sul sistema maggiore - minore, la sua dissoluzione ad opera di Schönberg e dei suoi seguaci, la rivoluzione “suo malgrado” di Igor Stravinskij, sono solo alcuni degli sconvolgimenti, veri o presunti, che hanno segnato i linguaggi musicali in occidente. Ma personalmente, come ho già avuto modo di chiarire durante un incontro con gli studenti dell’Università “La Sapienza” di Roma, ritengo che oggi si possa serenamente constatare che la rivoluzione più significativa nella storia della musica, quella che più ha inciso su creatori e fruitori è l’avvento dei mezzi di registrazione e riproduzione del suono, in particolar modo a partire dalla nascita del nastro magnetico, avvenuta in Germania a metà degli anni ’30 del novecento. Questo ha permesso una sorta di democratizzazione musicale grazie alla quale ciascuno può possedere ed ascoltare, in solitudine e nell’intimità della propria casa, pressoché qualsiasi opera musicale. Tutto ciò comporta ovviamente una certa perdita di quell’aura che circonda l’atto “rituale” del concerto, così come osservato acutamente da Walter Benjamin.
Cosa è per te la voce? la utilizzi nei tuoi lavori? quale la sua potenzialità?
Ho utilizzato molto la voce, soprattutto nei due anni in cui dirigevo una Schola Cantorum e durante il periodo immediatamente successivo. Ho composto molti pezzi per coro, con o senza solisti, uno Stabat Mater, pezzi per voce solista e diversi ensemble strumentali. L’ultimo lavoro che ne prevede l’impiego è del 2008 ma sto pensando di trattarla nuovamente nei prossimi progetti, anche se probabilmente sarà fortemente processata da mezzi tecnologici.
Qual è il rapporto fra il suono e le tecnologie? quali le possibilità di modificazione reciproca e di interazione?
Diciamo che la musica non ha mai avuto una compagna migliore della tecnologia. Essa è innanzitutto capace di registrare e riprodurre ad altissima qualità, grazie alla tecnologia digitale, la stragrande maggioranza dei suoni utili ed è inoltre in grado di modificarne ogni parametro: altezza, durata, intensità, timbro, ecc. Un ambito di particolare interesse, relativamente nuovo, è poi rappresentato dalle tecnologie di modificazione del suono in tempo reale che, a partire dagli anni ’80 del novecento, hanno molto interessato i compositori ed i ricercatori scientifici. Tali tecnologie consentono soprattutto l’interazione live del musicista con l’apparato informatico che presiede alla modificazione di quei parametri acustici cui accennavamo poco fa, e non solo. Ambienti dotati di sensori di prossimità collegati a un computer adeguatamente programmato consentono oggi di generare suoni e modificarli in tempo reale con semplici movimenti del corpo, con gesti e posture, un po’ come quello che accadeva già alcuni decenni fa con il theremin, primo strumento elettronico in cui l’esecutore regola altezza ed intensità di un suono agendo con le mani nude all’interno di un campo elettromagnetico. Attualmente le possibilità di modificazione ed interazione tra suono e tecnologie sono praticamente illimitate, semmai il limite vero è dato dalla creatività del compositore, dalla efficacia della sua ricerca o, più frequentemente, dalla scarsità di risorse economiche; dal punto di vista tecnologico c’è oggi la concreta possibilità di realizzare quasi tutto ciò che può venire alla mente eppure, per le cause appena esposte, si vedono e si sentono sempre le stesse cose…
Tu hai generato una performance dove è il corpo ad essere suonato, un corpo che suona un altro corpo? Da dove è partito questo lavoro? E in che modo praticamente ciò può accadere, fisicamente e tecnicamente? E quanto questo ha a che vedere con il concetto, di cui parlavamo prima, di “incorporare”?
Già: un corpo che suona un altro corpo; la performance di apertura dello spettacolo Corpo a Corpo è interamente idiofonica, ovvero l’oggetto che sprigiona il suono e quello che lo provoca sono costituiti della stessa materia, essendo due corpi umani. Una performance così è possibile se si parte dal presupposto che il corpo è un oggetto come un altro, fatto di diversi tessuti, tegumenti, parti rigide, parti molli, cavità, ecc. Si tratta di utilizzare la potenzialità di uno strumento composto da materiali così eterogenei al fine di produrre suono, come si farebbe su qualsiasi strumento musicale, fatte salve le particolari modalità di produzione ed emissione del suono stesso, legate a vincoli per così dire anatomici o morfologici; il corpo presenta inoltre una possibilità in più rispetto ad uno strumento musicale: la capacità di produrre eventi acustici interni autonomamente (battito cardiaco, respiro, ecc.) Sono occorsi quasi due anni di ricerca e sperimentazione per arrivare a conoscere, catalogare e poter sfruttare a fini compositivi tutte le chances sonore offerte dall’organismo umano in maniera endogena o esogena e per capire quali tecnologie avrebbero permesso la realizzazione pratica di una performance del genere. I segnali acustici provenienti dal corpo, con diverse modalità, vengono captati da particolari sensori e trasmessi ai dispositivi elettronici deputati alla loro modificazione o alla loro organizzazione temporale. Direi che in questo caso è forse la tecnologia che tende ad incorporare l’organismo umano e non il contrario; ciò appare evidente anche visivamente, essendo il corpo della danzatrice decisamente distante dagli esempi fatti in precedenza (il guidatore, il surfista, il portatore di protesi) e, al contrario, molto più simile ad un corpo monitorizzato da macchinari medici. Le tecnologie non sono qui un’estensione del corpo che se ne serve, bensì esse stesse si estendono fino ad attaccare un organismo passivo, carpirne il suono esogeno ma, cosa ben più importante, il suono endogeno, operando quindi una sorta di estroflessione acustica forzata del corpo verso il fruitore. La violenza della mia performance – se mai ce n’è – è forse tutta qua: non nella pretesa di riconoscere nel corpo nudo di una danzatrice manipolata da un uomo una nuova icona della sottomissione femminile (come per alcune femministe ritardatarie), ma nella tecnologia che penetra un’identità e la palesa al mondo: la maggiore provocazione è tutta racchiusa in quel battito cardiaco d’apertura che dovrebbe essere intimo e che io rendo invece manifesto grazie alla techne.
Un’immagine o pensiero per esprimere il tuo concetto di creazione, anzi generazione artistica?
Così come esistono diversi tipi di intelligenza, credo che esistano molteplici modi creativi. Per quanto mi riguarda ne percorro generalmente due: uno per così dire interno, mosso dal puro spirito di ricerca e sperimentazione, e l’altro innescato da agenti esterni: la frase di un libro, un elemento pittorico o architettonico, un scoperta scientifica, …o anche molto meno. Ciò che aborro è il concetto di ispirazione così come ci viene veicolato dai media e da una certa tradizione culturale, figlia essenzialmente del peggiore romanticismo. Non amo l’idea del compositore che, in preda ad una ispirazione che lo assale e lo trascende, quasi in uno stato di eccitamento mistico o di comunicazione col divino, riversa ferocemente sulla carta o, peggio ancora, sullo strumento le idee che gli piovono dal cielo. Io non sono così e per me accostare un suono all’altro è sempre un atto di raziocinio; ciò non esclude affatto una certa poesia e un gusto estetico necessari alla professione ma non credo che la capacità di comporre sia un dono ex machina; credo piuttosto che la storia della musica sia piena di talenti che, con uno studio profondo e onesto, hanno acquisito la capacità di divenire, se non sempre artisti, almeno ottimi intellettuali. L’idea che l’ispirazione possa nascere dal nulla e assalire una persona anziché un’altra è lesiva della professionalità del compositore e riduttiva delle sue reali capacità, ma capisco che l’immagine del musicista tutto genio e sregolatezza è ben più cinematografica…
A quale delle tue creazioni ti senti particolarmente legato e perché o, se non ce n’è una, perché?
Non ho preferenze e guardo con un certo distacco tutte le opere che, uscite dal cassetto, vivono ora la loro vita. Riconosco certo che alcuni lavori sono indubbiamente più riusciti di altri, che hanno più potenzialità o sono stati registrati con maggiore cura dagli interpreti, ma provo nei loro confronti una sorta di serena lontananza, senza nostalgia. Anche se il mio ultimo lavoro, scritto in occasione della nascita di mio figlio, mi emoziona fortissimamente per ovvi motivi extra-musicali, se proprio dovessi indicarti un’opera sarebbe senz’altro Bios , alla quale resto legato indissolubilmente poiché lavorandoci ho ideato alcune prassi compositive che fanno ancora parte del mio vocabolario espressivo, ho sperimentato delle strutture, dei modi, delle possibilità sintattiche che ritengo ancora fertili, insondate e ricche di potenzialità.
Un’opera, un film, personaggio, musica, immagine, libro che ti ha cambiato la vita, qualcosa che procura uno scarto, che apre una porta…
La lista sarebbe chilometrica… abbiamo tutti dei debiti, che si sia disposti ad ammetterlo oppure no, ma tra i miei creditori ci sono ben pochi musicisti, come ha recentemente sottolineato il musicologo Öskarsshon, o almeno i miei legami o le mie parentele con i compositori che mi hanno preceduto sono talmente sottili e lontane da essere ininfluenti o irriconoscibili. Sono stato forse più influenzato dalla filosofia di Deleuze, Derrida, Lukàcs, dalle Lezioni americane di Calvino, dall’arte di Burri, Giacometti, Bacon, Klein, dall’architettura del XX° secolo, dall’astronomia e dalla meccanica quantistica… Insomma: la mia curiosità può facilmente fagocitare ogni cosa e tutto è in grado di contaminarmi, di germinare proficuamente, di aprire delle porte, di svelare un arcano, soprattutto se si possiede la capacità di metterlo in relazione con altro, nello specifico con il proprio lavoro. È senz’altro nella relazione tra le arti che trovo l’impulso più forte per la creazione musicale, anche se poi il risultato è quasi sempre una musica pura, senza alcuna implicazione d’ordine sinestesico con le altre discipline. Di fatto, l’oggetto o l’evento extramusicale che fa scaturire le mie riflessioni musicali, una volta completata la composizione, rimane invisibile e irrintracciabile per chiunque al di fuori di me.
Come vedi la situazione dell’arte in Italia? pensi che sia importante la formazione in campo artistico e investire su questa?
Circa la necessità di formazione in campo artistico credo che non ci sia bisogno di aggiungere altro a quanto già emerso dalle risposte date in precedenza; per quanto riguarda la situazione dell’arte in Italia ritengo che sia drammatica. Le difficoltà sono oramai tante e tali che fare arte, divulgarla o anche solo parlarne è divenuto oggi un atto di resistenza; oggi gli artisti non sono poi così distanti da chi lotta per i diritti civili o contro la pena di morte poiché difendono il diritto alla conoscenza e combattono contro la morte dello spirito. Per quanto io cerchi di tenere questo tipo di impegno civile fuori dalla mia attività, devo arrendermi di fronte al fatto che creare è divenuto nostro malgrado, in questo particolare contesto socio - culturale, un vero atto politico.