Il suono eletto


Titolo: Il suono eletto. Funzioni compositive dell'oggetto sonoro (seminario)

Anno: 2 dicembre 2009

Editore: ICARUS musica

Committente: Università "La Sapienza" di Roma, Facoltà di Scienze umanistiche - Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo

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Marco Giannoni
“Il suono eletto. Funzioni compositive dell’oggetto sonoro.”
Una premessa possibile

Nel tentativo di analizzare il ruolo della musica nella sua interazione con le arti dello spettacolo (cinema, teatro, videoarte, ecc.) dovremmo innanzitutto chiederci cos’è la musica; se a questo dobbiamo aggiungere poi l’analisi del mio modo specifico di comporre musica allora sarà necessario chiarire preliminarmente anche il significato delle parole suono e rumore.
Cominciamo dal primo punto, quesito non da poco conto che ha tenuto e tiene in scacco da secoli tutti quelli che si occupano di musica in maniera cosciente e attenta: cos’è la musica? O per meglio dire (tentando di evitare così il rischio di essere troppo retorici): la musica è un linguaggio?
Si sarebbe portati a rispondere istintivamente di sì, tanto siamo abituati alla locuzione "linguaggio musicale", e non è detto che questa sia la risposta errata; eppure ci si dovrà presto arrendere di fronte al fatto che la musica è asemantica, che non è possibile trarne un vocabolario, che è impensabile piegare i suoi esiti assolutamente personali, soggettivi, alla necessità di relazionare strutture musicali a significati univoci ed oggettivi.
Se al problema semantico sommiamo anche il problema semiotico lo scenario diventa
quantomai complesso: «nella partitura c’è tutto tranne l’essenziale» diceva Gustav Mahler, e chi si occupa di comporre o anche solo di suonare uno strumento sa bene quanto questa affermazione sia vera, quasi dogmatica.
Alla base del presunto linguaggio musicale sta un sistema di segni approssimativi, non esaustivi, quasi sempre intercambiabili. Forse questa stessa imprecisione dei segni già da sola basta a negare, o comunque minare, alla base la possibilità di conferire alla musica lo status di vero e proprio linguaggio.
Né tantomeno isolare ed analizzare le più piccole parti della scrittura musicale consente di indagarne la specificità poiché, analogamente alla teoria della generazione del senso di A.J. Greimas, è solo nelle relazioni tra queste minime entità, in funzione di una struttura sintattica superiore e del suo sviluppo temporale, che è possibile cogliervi un senso.
E siamo di nuovo ad un punto cruciale: il senso musicale.
Si palesa qui il problema di ciò che definirei aspettative extramusicali per cui si è portati quasi sempre a vedere o intravvedere nell’ascolto musicale contenuti che esulano dalla mera organizzazione sintattico-sonora; tali contenuti sono ovviamente variabili da individuo a individuo, dipendenti da bagaglio culturale, pregresse esperienze, associazioni mentali, ricordi e stati d’animo, modalità d’ascolto e percettive, condizione psico-fisica dell’ascoltatore.
Il problema delle aspettative extramusicali non va sottovalutato poiché da un lato è ciò che in buona sostanza governa il mercato della musica di commercio, e dall’altro è in grado di condizionare il compositore che deve, se vuole raggiungere un certo risultato soprattutto nell’ambito della musica applicata, sottostare a dei clichés già consolidati poiché lungamente sperimentati.
A riprova di questo basterebbe analizzare l’uso della musica nel cinema per rendersi conto che, in film diversi, delle scene analoghe (ad esempio un bacio tra due innamorati o il momento della triste separazione tra gli stessi) vengono trattate musicalmente in analoga maniera: stesso andamento melodico, stessa orchestrazione, stesso andamento di tempo, stesse indicazioni agogiche, ecc.
Se è pur vero, come abbiamo già detto, che non è possibile stilare un vocabolario di
complessi sonori correlati a significati univoci, la quantità di luoghi comuni musicali che il cinema ha saputo produrre, la mole di stilemi sperimentati ed archiviati in un secolo di vita è talmente elevata da aver formato un efficace campionario di emozioni fornite di corrispondenti musicali validi per quasi tutti gli ascoltatori.
Ritengo però di poter e dover inquadrare tale problema in un ambito più ampio, una sorta di visione antropocentrica della musica che spinge a riconoscere nella musica la presenza di strutture riconducibili sempre e comunque alle attività umane, soprattutto ai ritmi biologici e al linguaggio verbale.
Ad esempio in una sequenza più o meno lunga di suoni identici le nostre capacità percettive ci inducono a riconoscere un tempo forte (un accento) ed uno debole.
Sarò ancora più chiaro: un orologio meccanico sufficientemente rumoroso produce una serie di tic sempre uguali che noi descriviamo però generalmente come un tic ed un tac; si tratta ovviamente di una mera illusione.
Continuiamo con gli esempi: la pratica della proposta di un tema musicale e della sua
risposta, affidata magari ad un’altra voce strumentale o esposta in modo diverso, viene quasi sempre interpretata intuitivamente dall’ascoltatore come una forma simbolica affermazione/negazione; così come si è portati a raffigurarci il procedere simultaneo di due melodie (ad esempio una delle invenzioni a 2 voci di J.S. Bach) come un dialogo tra due soggetti.
Presa coscienza di queste anomalie dell’ascolto restano soltanto due cose da fare: o
concordare con J.J. Nattiez nel sostenere che una semantica musicale non può che riflettere sulle relazioni tra musica e significati tenendo conto di queste implicazioni psicologiche, percettologiche, storiche e sociali; oppure ritenere che questi miraggi sonori siano riconducibili alla tentazione, magari inconscia e quindi in buona fede, di porre l’uomo a metro di ogni cosa.
Nei fatti, il rischio concreto è che ciò finisca con il precluderci la possibilità di afferrare il senso del discorso sonoro per ciò che è. Già la diffusa pretesa di tradurre in termini linguistici il discorso sonoro denuncia un modo di interpretare la realtà costantemente legato alla soggettività e al mondo interiore; tanto più se consideriamo che tale prassi si avvale di un lessico composto da termini inadatti, il più delle volte impropri, e comunque non esaustivi, incompleti.
Soltanto la capacità di riconoscere le strutture costitutive della composizione musicale e di apprezzarne coscientemente gli esiti formali (con un ascolto scevro da condizionamenti extra-musicali, senza l’entrata in gioco della narrazione, di analogie e simboli) può renderci capaci di capire realmente la musica, e non soltanto di ascoltarla passivamente lasciando che la mente, priva degli strumenti deputati ad una decodifica specifica, sopperisca ad un vuoto intellettivo richiamando sensazioni e suscitando associazioni che nulla hanno a che vedere con l’ascolto.
Direi che per un ascolto pienamente autentico della musica bisogna innanzitutto essere disposti a dimenticare se stessi, a dimenticare d’essere uomini e di aver avuto un certo vissuto magari sonorizzato da questo o quel pezzo di musica, oppure accettare passivamente che tutto questo sia ineludibile e che, con tali vizi d’ascolto, non sia possibile che il compromesso d’un ascolto coscientemente viziato.
Il secondo punto che mi ero ripromesso di trattare in questa introduzione lunga ma necessaria riguarda la differenza tra suono e rumore. Questo è l’argomento che mi è più indispensabile anche nell’affrontare un’analisi del mio modo specifico di comporre,
indissolubilmente legato ad una concezione del suono talmente lata da includere con naturalezza ogni tipo di rumore purché, e questa come vedremo è l’unica discriminante, coscientemente scelto dal compositore in funzione espressivo-strutturale. Secondo la maggior parte dei testi sui quali ancora oggi si formano generazioni di studenti di musica, la differenza tra suono e rumore risiede in una diversa forma d’onda: più coerente ed armonica nel primo caso, irregolare e incoerente nel secondo.
Ci si dimentica a quanto pare che, spettrografo alla mano, la maggior parte degli strumenti a percussione genera proprio quest’ultimo tipo di forma d’onda, il che ci porrebbe di fronte al paradosso di strumenti musicali generanti non suono ma rumore.
Non c’è quindi bisogno di ideare nuove teorie a sostegno di una tesi semplicissima: grazie alla scelta consapevole del compositore di introdurre nella propria opera il “rumore”, questo viene nobilitato ed innalzato al rango di suono.
Come giustificare altrimenti la quasi indifferente benevolenza con la quale accettiamo i colpi di cannone sul finale dell’Ouverture 1812 di Čajkovskij, o le sirene in Amèriques di Varèse, o il colpo di frusta che apre il Concerto in Sol maggiore per pianoforte e orchestra di Ravel?
E sarebbe possibile andare avanti ed aggiungere centinaia di esempi anche di molto più antichi. Per me il suono di due sassi che urtano uno sull’altro e quello d’un clarinetto, o di un violino, hanno pari dignità ed appartengono entrambi,e senza conflitto alcuno, a quel mondo acustico ricchissimo nel quale ritengo ci sia posto per ogni manifestazione sonora, e dal quale sento di poter trarre con la massima libertà tutto ciò che mi occorre per comporre.
In conclusione di questa introduzione, qual è quindi la differenza tra suono e rumore?
Il compositore può decidere di eleggere al rango di suono tutto ciò che ritiene necessario al proprio intento creativo, anche raccogliendo i rumori più semplici, rudi e quotidiani, come fossero i materiali dei collages di Braque o Picasso oppure, se volete, come accade al Don Quijote di Cervantes che, preso il bacile di un barbiere, lo elegge a suo elmo.